[Quodlibet, Macerata 2016]
Reportage narrativo, diario di viaggio, iconotesto: nessuna di queste etichette coglie dawero lo statuto narrativo del libro firmato da Giorgio Vasta e da Ramak Fazel, fotografo statunitense. Sull’esempio di molte scritture a bassa finzionalità degli ultimi anni, Absolutely Nothing fa dell’uso disinvolto di differenti generi e forme il suo punto di orgoglio. Attraverso l’alternarsi di foto, appunti di viaggio e frammenti più inclini al ragionamento e all’autobiografismo, Vasta racconta quel paesaggio che già Baudrillard, nell’indimenticabile “reportage filosofico” America, definiva «siderale»: il paese della libertà astratta del deserto e delle superfici minerali, delle cittadine abbandonate e dei motel tutti uguali, lungo una zona continentale che va dalla California alla Louisiana.
Sin dalle prime pagine il racconto di Vasta dà per scontato il sabotaggio di ogni coerenza descrittiva tipica della guida di viaggio («le persone si fanno personaggi, la tortuosità si innalza a metodo e la carrozza del baedeker si trasforma nella zucca di una scrittura che soprattutto suppone, finge, si arrangia, mente»). La stessa successione cronologica lineare delle sequenze descrittive, composte da una data e da appunti in presa diretta, viene presto sowertita da lunghe parti in corpo tipografico minore nelle quali il narratore commenta, a distanza di mesi, l’esperienza del viaggio americano, introducendo un registro narrativo ellittico, quasi enigmatico, che accompagnerà tutto il libro: «il nostro viaggio americano è stato irripetibile perché ha cancellato le sue stesse tracce. Non potendo ricordare, lo raccontiamo. Il racconto serve a cancellare le tracce».
Soprattutto in questi frammenti emerge una postura narrativa specifica della scrittura di Vasta (già visibile nel Tempo materiale e, soprattutto, in Spaesamento), retoricamente molto efficace: un atteggiamento scettico, spaesato, quasi distratto, attraverso il quale il narratore si colloca costantemente in una posizione laterale e periferica rispetto al centro dell’azione. La scrittura consiste, allora, in una continua pratica di ruminazione mentale, in cui percezioni interne e ambiente esterno sono oggetto dello stesso pedinamento che le parole compiono rispetto alle cose. Da quest’atteggiamento, in Absolutely Nothing, scaturisce la convinzione di fondo che il viaggio contemporaneo abbia a che fare molto di più con la «privazione e [lo] sconcerto» che con I’«arricchimento» vero e proprio. Ad attraversare le pagine del libro c’è, perciò, una sorta di «estetica della sparizione» (volendo piegare una categoria di Paul Virilio ad altri fini): l’insistenza sui motivi dell’apocalisse, del cannibalismo (il libro si conclude con una visione: una famiglia di cannibali nel deserto pronta ad aggredire il narratore e i suoi compagni di viaggio), il ritorno sul tema della rimozione e dell’assenza (il deserto come prefigurazione della fine della relazione tra il narratore e la compagna, l’absolutely nothing che diventa absolutely nobody) stingono continuamente la veridicità della narrazione. Se la reciproca circolazione del vero nel falso sembra un modo di conoscere il mondo specifico della cultura nordamericana, è soprattutto il continuo effetto di déjà-vu di alcuni luoghi a stimolare le riflessioni più dense di Vasta: «quella che stavo sperimentando era una memoria cromosomica, la reminiscenza biologica di immagini e situazioni vissute fino a esserne intriso, qualcosa che al netto di tutti i tentativi di ricordare mi dava la certezza di conoscere quel luogo come archetipo nei suoi fenomeni più minuti».
I deserti e i luoghi abbandonati della California, dell’Arizona, del Nevada diventano allora l’archetipo dell’indicibile, di tutto ciò che rimane fuori dalla nuvola di narrazioni che saturano lo spazio nordamericano; l’impossibile eppure necessaria verifica che la letteratura compie sul mondo: «andare a vedere cosa succede negli spazi da cui le parole sono andate via».
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